Il jihadismo in Africa: il terrorismo dimenticato (2/2)

Mathilde L’Hôte, tradotta da Letizia Garlatti
21 Septembre 2016



Secondo il rapporto del 2015 sul terrorismo mondiale pubblicato dall’Institute for Economics and Peace, il numero di vittime e di attacchi terroristici è «aumentato drasticamente negli ultimi quindici anni». Nonostante il loro numero sia considerevolmente aumentato soprattutto in Medio Oriente, con lo scoppio della guerra civile siriana nel 2011, la Nigeria rimaneva il secondo Paese con il più alto numero di vittime del terrorismo nel 2014. Da ciò, il desiderio di indagare sulle realtà di un fenomeno modiale, sul suo ruolo e sulla sua influenza sul continente africano, il quale, se non meno violento, sembra essere sottovalutato. Le Journal International pone attenzione su questo terrorismo “dimenticato”.


L’AMISOM e l’esercito nazionale somalo cercano di respingere Al Shabaab lungo il corridoio di Afgoye. Crediti: Flickr/AMISOM Informazione Pubblica
L’AMISOM e l’esercito nazionale somalo cercano di respingere Al Shabaab lungo il corridoio di Afgoye. Crediti: Flickr/AMISOM Informazione Pubblica
Le caratteristiche del jihadismo in Africa sono molteplici e diverse, esso si alimenta principalmente del traffico di droga, petrolio, contrabbando e anche sequestro di persona.

Terrorismo e traffici di ogni genere

Questi gruppi terroristici partecipano in modo più o meno diretto a traffici vari che generano enormi guadagni. Per quanto riguarda le droghe, nella regione ve ne sono tre principali: la cocaina proveniente dall’America Latina, l’eroina dall’Afghanistan, dal Laos, dalla Birmania e dalla Thailandia e la droga sintetica prodotta in Africa ed esportata in Estremo Oriente. Anche se i gruppi jihadisti non si occupano personalmente di trafficare la droga, assicurano protezione ai trafficanti in cambio di un compenso finanziario a consegna avvenuta.

In Nigeria, Boko Haram mantiene stretti contatti con i trafficanti. Le tratte della cocaina e delle droghe sintetiche si incrociano sul territorio attraverso i porti di Calabart e Port Harcourt, nel sud-est del Paese. Importanti flussi di cocaina ed eroina provenienti dall’Africa occidentale attraversano allo stesso modo la regione del Sahel, fatto che si è tradotto con una cooperazione nel settore tra Boko Haram e l’AQMI. Del resto Alain Rodier, vicedirettore del Centre Français de Recherche sur le Renseignement, non esita a definire Boko Haram un «movimento narcoterrorista», sottolineando così l’impatto positivo di questi traffici sul funzionamento dell’organizzazione.

Quanto al gruppo Al-Shabaab, esso mantiene stretti contatti con la pirateria in Somalia. I pirati fornirebbero al gruppo armi e un compenso finanziario in cambio di formazione sull’uso delle armi, secondo il parere di Bruno Schiemsky, ex coordinatore del Gruppo di controllo delle Nazioni Unite sulla Somalia e attuale consulente per la sicurezza con sede in Kenya.

Quali ambizioni? Dal livello locale a quello internazionale

Mentre la natura internazionale dell’AQMI, affiliato ad Al-Qaeda, sembra quindi indiscutibile, le altre due organizzazioni jihadiste devono affrontare lotte interne come conseguenza delle proprie ambizioni e azioni.

Secondo Séga Diarrah, caporedattore di Maliactu.net a Bamako, Boko Haram avrebbe « il solo obiettivo di creare un Califfato in una parte della Nigeria, in mancanza della possibilità di sottomettere l’intero Paese alla legge islamica, la sharia ». Tuttavia, secondo una fonte Reuters, una dozzina di leader dell’organizzazione sarebbe stata addestrata al di fuori della Nigeria, in campi di addestramento dell’AQMI in Algeria e in Mali. Tra l’altro, l’organizzazione riceve materiale esplosivo che attraversa la regione del Sahel. Se gli attentati perpetrati da Boko Haram si restringono a una zona geograficamente limitata, è importante notare che diversi attacchi sono avvenuti in Niger, in Camerun e anche in Ciad. La regione del lago Ciad si trova infatti in stato di emergenza per tentare di combattere questi attacchi terroristici.

Quanto ad Al-Shabaab, egli ha stretto alleanza con Al-Qaeda nel 2009, mossa che gli ha permesso di guadagnare un’importanza simbolica, tradottasi nell’afflusso massiccio di nuovi combattenti. Inoltre, dopo l’11 settembre 2001, gli Stati Uniti e numerosi membri della comunità internazionale hanno additato la Somalia come uno stato fallito, terreno fertile del jihadismo, inserendola fra le priorità nella guerra al terrorismo. Tuttavia, l’organizzazione è divisa sulla portata geografica della sua lotta. Queste separazioni, abbinate al conflitto con il governo provvisorio, l’Unione Africana e il Kenya, « hanno pesantemente indebolito il gruppo », che, al giorno d’oggi, assomiglia più a un movimento di « guerriglia », «presagio di un conflitto meno intenso ma di lungo termine », secondo il giornalista freelance Xavier Aldekoa.

Violenze: la questione del genere

Questi gruppi terroristici hanno commesso innumerevoli violazioni dei diritti dell’uomo. Condannarli è essenziale, ma Itziar Ruiz-Giménez sottolinea anche la necessità di contestualizzarli e capirli. Secondo la professoressa di relazioni internazionali dell’università autonoma di Madrid, « la religione non è violenta, tutto dipende da come lo Stato si pone nei confronti di essa », facendo un diretto riferimento con queste parole al ruolo giocato dai governi somalo, nigeriano e del Mali nella radicalizzazione di questi gruppi jihadisti.

Entrando nello specifico, Itziar Ruiz-Giménez denuncia la violenza sulle donne, che « non è irrazionale ma è direttamente legata al sistema patriarcale » e di conseguenza alle violenze di genere che avvengono non solo in zone di conflitto, ma anche in numerose società. Per esempio, Boko Haram dà le donne in dono ai soldati, fatto che « facilita il reclutamento di nuovi membri », come sottolineato da Xavier Aldekoa. Violenze e matrimoni forzati sono una pratica caratteristica anche di Al-Shabaab.

Una nuova tattica è stata sviluppata, ribattezzata da Xavier Aldekoa come « le bimbe-bomba », riferendosi all’impiego di donne e bambini come kamikaze. In Nigeria, « nell’ultimo anno e mezzo sono avvenuti 150 attentati suicidi, dei quali più del 50% compiuto da bambine ».

Quali alternative?

La risposta è definitiva, per Itziar Ruiz-Giménez e Xavier Aldekoa, « la sola soluzione militare è un disastro annunciato ».

La narrazione degli eventi: un pericolo potenziale?

Uno dei problemi sottolineato da Itziar Ruiz-Giménez è la narrazione della situazione politica, sociale e di sicurezza dei Paesi interessati. « Caos », « Stato dilaniato», « nuova barbarie » sono parole che ritornano spesso quando si parla, ad esempio, della Somalia. A parere della professoressa e ricercatrice dell’università autonoma di Madrid, si tratta di spiegazioni pericolose che, effettivamente, « distorcono la realtà » e impediscono di capire a fondo i processi di destabilizzazione politica e di radicalizzazione.

Riferendosi più specificatamente ai gruppi jihadisti, Itziar Ruiz-Giménez denuncia la « riduzione all’essenziale delle differenze etniche, culturali e religiose che manipolano le identità dei popoli ». In questo senso, e riprendendo la sua tesi sulla necessità di comprendere meglio le violenze attraverso un’analisi del genere, la professoressa sottolinea che è « molto pericoloso dire che le violazioni dei diritti dell’uomo siano una conseguenza del fanatismo ». Esistono svariate cause, soprattutto l’invasione di forze straniere nei Paesi interessati, come gli Stati Uniti in Somalia o la Francia in Mali.

Queste politiche estere sono state « modellate » in seguito all’11 settembre 2001, con un potenziamento della sicurezza della politica internazionale sfociato nella militarizzazione delle società attraverso un rafforzamento delle capacità militari e politiche di numerosi governi, i quali « violano lo stesso i diritti dell’uomo ». Per spiegare tale tendenza, Itziar Ruiz-Giménez si riferisce e denuncia l’uso della dottrina del male minore che, secondo il pensiero realista delle relazioni internazionali, considera il perseguimento dello Stato di una politica di potenza come un fatto e una condotta desiderabile come male minore.

Ridefinire le politiche interne ed estere delle nostre società

Xavier Aldekoa e Itziar Ruiz-Giménez concludono proponendo delle idee. « Le politiche di pace partono dalla ridefinizione delle politiche estere », e queste ultime non devono poggiarsi su interessi economici e politici ma su una logica di solidarietà internazionale e di sviluppo reciproco. Inoltre, se questi gruppi si nutrono di lacune politiche, economiche e sociali a livello locale, nazionale o regionale, « noi dobbiamo interrogarci su ciò che accade nelle società occidentali ». In Europa, i diversi sistemi di integrazione hanno mostrato le loro debolezze, arrivando a sistemi che Itziar Ruiz-Giménez definisce diseguali e razzisti. Al giorno d’oggi questa tendenza si rispecchia nella « criminalizzazione dei rifugiati» in Europa. Insistendo sul bisogno di adottare, fra l’altro, una nuova politica migratoria, Xavier Aldekoa riporta l’attenzione sui numerosi problemi sollevati dai movimenti jihadisti: il ruolo politico ed economico degli Stati, l’integrazione delle donne, le politiche d’integrazione di entrambe le parti implicano la ridefinizione di un numero di norme che, in uno stato di emergenza, risulta impensabile a molti.

La prima parte di questo articolo è disponibile qui.

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