Beirut: Cicatrici di guerra (1/2)

Salomé Ietter, tradotto da Davide Fezzardi
21 Octobre 2015



È difficile passarci accanto senza farci caso, le strade di Beirut sono intrise di ricordi appartenenti a un periodo traumatico per il Paese. Nel 1975 iniziò una guerra civile che durò per 15 lunghi anni e che intaccò l'entusiasmo suscitato dall'indipendenza del Paese. Secondo molti, queste cicatrici sfigurano il Paese, mentre per altri, sono anche fonte d'ispirazione. A ogni guerra i propri ricordi, i propri sopravissuti e le speranze del "mai più". Dania, libanese nata durante la guerra a Beirut, rivela a Le Journal International i ricordi di un periodo carico di problemi.


Sotto il ponte Fuad Shihab, Beirut. Fonte Salomé Ietter
Sotto il ponte Fuad Shihab, Beirut. Fonte Salomé Ietter
La geopolitica del vicinato conta molto per un Paese e questo vale in particolare per il Libano. Molto prima dello scoppio di questa guerra, che di civile non ha altro che il nome, il 1967 e la vittoria israeliana segnarono il cambiamento dello status quo nella regione. Il Libano si trovò diviso fra gruppi pro-Palestina, pronti a combattere contro Israele e gruppi nazionalisti, più preoccupati per la sovranità del proprio Paese. Come per altri Paesi arabi, la sconfitta e la dimostrazione di potenza israeliana del 1967 cristallizzarono le tensioni nate con la creazione dello Stato di Israele. La presenza di rifugiati palestinesi spinse alcuni gruppi, soprattutto di sinistra e musulmani, a fare della causa palestinese il proprio leitmotiv. Si formarono così allo stesso tempo alcuni gruppi armati palestinesi, pro-palestinesi e nazionalisti.

Il 13 aprile 1975, alcuni membri delle Falangi libanesi uccisero 27 passeggeri palestinesi su un autobus. Le Falangi libanesi, Kataeb, sono un partito politico composto principalmente da cristiani sostenitori di un nazionalismo estremo. Nonostante l'alleanza allacciata durante la guerra, sotto la bandiera delle "Forze libanesi", si fecero sentire negli ultimi anni del conflitto i dissensi con altri partiti cristiani i quali videro nelle Falangi delle formazioni troppo settarie, per non dire fasciste. L'elemento nazionalista predominò forse su quello religioso; ma in tempo di guerra qualsiasi simbolo d'identità è messo a profitto per raccogliere consenso fra la popolazione. Come descritto da Amin Maalouf, le identità cambiano a seconda delle circostanze. Questa propensione ad associare l'identità religiosa e quella politica portò a una guerra civile, religiosa e interconfessionale. Il 13 aprile fu la data che segnò l'inizio ufficiale del conflitto. Con il massacro e l'armamento dei gruppi palestinesi sorsero i problemi.

La "battaglia degli alberghi" portò, quasi subito, a vuotare i grandi hotel di Beirut. Lo scontro distrusse uno dei più potenti simboli del boom economico: l'ospitalità libanese e il benvenuto riservato ai turisti. L'hotel Holiday Inn, aperto tre anni prima di essere distrutto, contava 500 camere e un ristorante panoramico. Rappresentava la fiducia riposta nel Paese da varie catene alberghiere prestigiose. Oggi dell'Holiday Inn non rimane altro che un guscio vuoto che offre ai turisti il triste spettacolo dei propri muri crivellati da colpi d'arma da fuoco.

Holiday Inn, Beirut. Fonte Jason Flori
Holiday Inn, Beirut. Fonte Jason Flori
La vita culturale, anch'essa simbolo della modernità libanese, risentì molto degli scontri. Ne sono testimonianza i resti del maggiore cinema libanese o la struttura maestosa ma vuota del Grand Théâtre, da anni in ricostruzione e che in passato ha accolto gruppi e artisti famosi in Europa e in Medio Oriente.

Chi ha condotto la guerra?

L'Œuf era il maggiore cinema nel Libano negli anni '50. Durante la guerra civile ne è stata distrutta una parte considerevole. Fonte Salomé Ietter
L'Œuf era il maggiore cinema nel Libano negli anni '50. Durante la guerra civile ne è stata distrutta una parte considerevole. Fonte Salomé Ietter
Così come testimoniato da queste immagini, il cuore di Beirut divenne un campo di battaglia fra forze che ancora oggi sono difficili da identificare. Alcuni furono sicuramente libanesi ma si contarono anche combattenti e opportunisti stranieri. Nel corso della guerra vennero strette alleanze e coinvolte forze straniere. Molti fra i libanesi hanno la sensazione che questa guerra fosse condotta "da altri e per altre nazioni". Dania condivide questo punto di vista: «Non ho mai capito esattamente chi ha condotto quella guerra. Gruppi fanatici e armati, interni e stranieri. Persone che avevano interesse a difendere la causa palestinese e altri che ne erano contro. Non c'è bisogno di molte persone per far nascere il terrore. Una persona decapita un'altra persona, ed ecco, scoppia la guerra».

Grand Théâtre. Fonte Salomé Ietter
Grand Théâtre. Fonte Salomé Ietter
Si tratta di una situazione che dipende da un filo, da una vita, e porta all'escalation assassina dei conflitti che hanno scandito il ritmo di quegli anni detti di "guerra civile". Come sottolineato da Dania, se la persona che compie l'atto scatenante si afferma sostenitore di una determinata posizione ideologica oltre che del proprio progetto politico d'opposizione o di sostegno, si forma rapidamente un'associazione. Per questo sono circolate molte voci in merito a una cooperazione fra Israele e i cristiani.

Dopo l'assassinio di Bachir Gemayel, figlio delle Falangi libanesi, le Forze Libanesi risposero massacrando, sotto la supervisione israeliana, uomini, donne e bambini negli episodi tristemente noti di Sabra e Shatila. Israele iniziò a invadere il sud del Libano nel 1978 e l'operazione "Pace in Galilea" gli permise di assediare Beirut nell'estate 1982 con la conseguente nascita di Hezbollah che farà della lotta contro Israele il proprio cavallo di battaglia. Anche la Siria entrò a far parte del conflitto nel 1976, inizialmente per proteggere i cristiani e poi per difendere i Palestinesi. Il gioco di alleanze e d'opportunismo era fondato sulla fragilità e le affinità religiose e ha amplificato la sete di rivincita.

La linea verde e la separazione fra religioni: guerra civile o cooperazione?

Nel 1975 la vita dei libanesi era costituita da controlli, check-point, divisione, copri-fuoco e ansia. La famiglia di Dania viveva, e vive tuttora, nel quartiere di Hamra abitato principalmente da musulmani ma anche da alcune famiglie cristiane. Dal 1976 i cristiani di Beirut-ovest vennero costretti a spostarsi verso Beirut-est, dall'altra parte di quella che è conosciuta come "Linea Verde". Il nome deriva dalla vegetazione cresciuta lungo la via di Damasco, abbandonata dalla popolazione.

La "casa gialla " in posizione strategica sulla linea verde. Fonte Salomé Ietter
La "casa gialla " in posizione strategica sulla linea verde. Fonte Salomé Ietter
La "casa gialla" o Barakat dal nome dei precedenti proprietari, rappresenta un altro simbolo anteguerra per i cittadini di Beirut. Per via dell'architettura, della diversità di chi ci viveva, ma anche della posizione, sfortunatamente strategica sulla linea di divisione, il bell'edificio anni '20 è stato ridotto a un guscio vuoto, una facciata che testimonia con i segni dei proiettili un'eredità molto triste. Grazie a un progetto svolto in cooperazione con la Francia, l'immobile diventerà fra qualche mese o anno il museo della città di Beirut.

E i segni dei proiettili. Fonte Salomé Ietter
E i segni dei proiettili. Fonte Salomé Ietter

L'ex linea verde, Fonte Salomé Ietter
L'ex linea verde, Fonte Salomé Ietter
Il Museo Nazionale situato lungo la via di Damasco ha subito molti danni con la guerra e con gli spari dei cecchini che hanno rovinato i capolavori. Anche qui, i ricordi della guerra sono ancora vividi. Un video lungo una ventina di minuti rende omaggio agli uomini e alle donne che hanno lavorato prima, durante e dopo la guerra per salvare opere e tesori archeologici risalenti a migliaia di anni fa. Secondo i testimoni, la divisione era presentata come la migliore soluzione politica per garantire la sicurezza pubblica, tuttavia i fatti hanno messo in dubbio questa presunta certezza. Per tutta l'infanzia fino al 1988, Dania non ha potuto vedere né il centro città, né Beirut-est. Alcuni cristiani del suo edificio a Beirut-ovest non hanno seguito gli ordini secondo i quali avrebbero dovuto raggiungere i cristiani di Beirut-est e hanno preferito riporre la propria fiducia su amici e vicini.

Mosaico colpito da un cecchino, Museo Nazionale di Beirut. Fonte Salomé Ietter
Mosaico colpito da un cecchino, Museo Nazionale di Beirut. Fonte Salomé Ietter
Per 15 anni il ritmo della vita quotidiana era scandito da periodi di combattimento e da momenti tranquilli. In questi ultimi anni, la vita ha ripreso un corso quasi normale. Le scuole hanno cercato di riprendere la normale attività, alcuni negozi hanno riaperto. La scuola di Dania, a Hamra, è rimasta aperta per tutto il corso della guerra. Ringrazia di cuore la direttrice della scuola francese-protestante che, nonostante i conflitti, ha continuato a offrire un'istruzione ai bambini.

Dania si ricorda soprattutto dei momenti felici e sorride anche per alcune situazioni: «nascondersi nel teatro durante la verifica di dettato era molto bello. Da bambini non ci si rendeva conto che dover saltare la verifica poteva significare morte imminente». Capitava che, durante i combattimenti, i bombardamenti colpissero il quartiere della sua scuola. «A volte restavamo a scuola per ore. Ci rifugiavamo sotto il cortile della palestra. La cosa più pericolosa durante i combattimenti di quartiere sono gli spostamenti». Come fa notare «per uscire bisognava un po' organizzarsi. I gruppi armati dovevano riposarsi e mangiare, in base a quando lo facevano sapevamo quando poter uscire». Si doveva quindi organizzare la propria vita quotidiana per correre il minor numero di rischi possibile.

Ognuno viveva nella propria parte ma i missili arrivavano ovunque. Uno dei suoi compagni di classe venne colpito da una bomba. Nonostante questi orrori, Dania non ne è stata ferita. Per questo afferma, per certi versi, di «essere stata molto fortunata». Ricorda dettagliatamente la notte in cui venne bombardato l'edificio in cui abitava. Mentre la famiglia era al riparo, il padre di Dania andò ad aiutare il vicino, bloccato nel proprio appartamento incendiato da una bomba. «Mio padre è molto in gamba, è stato eroico durante la guerra e ha contribuito a salvare vite umane. Gli è stata data perfino una pistola per garantire la sicurezza dell'edificio».

Ricorda di una vicina che urlava «Ci decapiteranno» e l'altra risponderle «Taci! ci sono dei bambini!». Oggi ride di quelle reazioni angosciate e di quelle urla, ma le ricorda molto bene. Quella notte di bombardamenti le ha lasciato il ricordo più vivo. «Avevo soprattutto paura dei suoni. Non ho mai pensato di poter morire o finire decapitata. Ma avevo paura dei rumori, paura per i miei genitori e per mia sorella». All'alba sono usciti tutti dal quartiere. «Abbiamo ritrovato le auto sotto i resti degli edifici. Non era rimasto intatto alcun finestrino eccetto quelli della nostra auto! Mio padre disse «Siamo fortunati non dovremo pagare i finestrini». Ricorda i vicini ridere a crepapelle, fortunati nella sventura. «Chiedevo cosa c'era da ridere in quel modo e mi rispondevano che ridevano perché erano ancora vivi».

C'era veramente un forte legame fra i cristiani e i musulmani di quell'edificio. L'identificazione non avveniva solamente su base religiosa. Gli amici cristiani di suo padre, che conoscevano meglio alcune minacce, gli davano consigli sulle deviazioni da compiere lungo la strada e sui percorsi migliori da seguire. È così che i genitori di Dania sono riusciti a sopravvivere. Ci sono anche episodi un po' più felici in quel periodo della sua vita. Alcune situazioni della vita quotidiana venivano amplificate dalle condizioni di vita. Dania parla volentieri di quando aveva 6 anni e, a Natale, musulmani e cristiani festeggiarono insieme. Babbo Natale quell'anno era il barbiere, diventato molto magro. Per Dania era molto strano vedere un Babbo Natale magro. «Come regalo abbiamo ricevuto gomme da masticare e cioccolatini. Così ho detto "è un avaro, questo Babbo Natale!". Anni dopo ho saputo che molti negozi erano chiusi e che non avevamo abbastanza soldi».

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